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Lasciatemi gridar che il tempo fugge
e noi più lenti di lui restiamo
nel porgli misura di sfidarlo crediamo
ma egli solerte l’illusion distrugge.

La nebbia fitta si fece più rada,
spalancai le fessure di questa mia tana,
custode ormai della speranza vana
del nutrimento per cui l’invito decada.

L’oro rubicondo che nero si fece
ardea rodendo per siffatta brace
che nel pensier mio ancor non trova pace.

(Titolo: Lasagne bruciate)

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Nasce sotto i peggiori auspici
il giorno lungo di un’afosa estate
passata nelle stesse stanze odiate
dell’impieghi che furon assai infelici.

Il mio corpo, sai, non ha padroni
la mia volontade non gli pone impedimenti
per quanto poi d’oppormi tenti
solo vuol che a lui m’abbandoni.

Ma la realtà s’aggiusta ancor più forte
sicchè il mio corpo che a lei si piega
mi porta presagi di nefasta sorte
e la mia alma l’uom dell’acqua prega.

(Titolo: Scarico del bagno rotto)

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Tu che sei la Pizia di questo tempio,
priora sei di questo convento
ove si rifugia il cor contento
dal mondo sommessamente empio.

Qual che sia tua notizia di buon grado
l’accetto, ché null’altro potrei fare
senza tuo atto d’ira cagionare
sicchè dal mio pensar stesso mi dissuado.

Perché ora dunque con odio mi miri?
Allorchè m’addentro in più oscuri luoghi
una vetusta rabbia su me sfoghi
e il capo d’artificioso oro da me giri.

Ma null’altra strada mi restava.

(Titolo: La portinaia puliva le scale)

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Le tue parole serene e soavi
dolci, eleganti e raffinate
le sceglievi di buon gusto adornate
di letizia la tua favella melodiavi.

Ma era pioggia e cadea forte
sicchè restar non era saggio
pensar di cambiarti era miraggio:
l’allontanarci era l’unica sorte.

Così me ne andai per salvarmi
e per salvarti dalla vergogna
di romper il sogno di colui che sogna
e notar tua natura ingiusta e io senz’armi.

(Titolo: Mentre mi parlavi sputacchiavi)

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Vorrei lasciarti cadere nell’oblio,
avrei preferito non giunger a conoscenza
ma la realtà s’impone con prepotenza
e l’ingiuria prende quest’odor stantìo.

Porti via un quarto di questo mese
con te, frutto di indfessa fatica
rinnovi ora una questione antica
con la rabbia che già da tempo mi prese.

Siamo andati noi troppo veloci
più di quanto il tempo permettesse
e quel che conceder non si potesse
lo vedo segnato su te, con parole atroci.

(Titolo: Multa)

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Chiesi le begonie, ma begonie non avevi.
Proponesti rose, eppur non mi convincevi,
un po’ per il prezzo e un po’ per la fattura:
le rose già andate mi parean una iattura.

Presi margherite, titubando un poco,
altro non conoscevo in tal ameno loco.
Mi guardavi, mi capivi, riflettevi anche tu:
forse un fiore giallo, magari un fiore blu.

Ad un tratto, repentino, “calle?” dicesti,
caro romano, “meglio fresche, non diresti?”.
Incartasti le margherite e più non rispondesti.

(Titolo: Le calle sono fiori)

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Nei lignei scrittori assiso non udivi,
par che non ti giungesse la mia voce
implorante per tal responso atroce
che una volta emesso intirizzivi.

Non ti impensierisce che al mio focolare
rinunciar io devo fino a ignota data
da carte, pareri e indifferenza negata
costretto dal mio futuro a rinegoziare.

Adduci a ciò l’inutil questione
del denaro non fisso ricevuto
che del mio quotidian, com’hai veduto
è già assidua tribolazione.

(Titolo: Mutuo respinto)

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L’aere inumano s’è fatto
nell’anfratto d’artificiosa fattura
adibito a recar a maggior altura
nell’ambiente dal crocchio rarefatto.

Di mortal natura era l’origine
del misfatto da malizia cagionato,
di un perfettibile nutrirsi il risultato
che nel ricordo rinnova la vertigine.

Il disgusto non sortì alcun effetto,
l’odoroso aere in alcun modo si dissolse,
anzi portò diletto al fattore maledetto.
Mentre l’intera mattina mi sconvolse.

(Titolo: Peto in ascensore)

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Grido forte
“manca spazio!”
quasi è morte
questo strazio.

Spinto e sospinto
a necessità obbligato
pressato ad un lato
da rassegnazione vinto.

Or che l’aere scarseggia
il mio corpo è il mio confine
mentre la folla rumoreggia
attendo di questa attesa la fine.

(Titolo: Autobus nell’ora di punta)

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La tua voce m’era lontana
chiedevi, così pensavo,
ma non capivo, e m’arrestavo,
ed ogni scelta restava vana.

M’irritai, m’hai visto
ma non era l’intenzione
di recar preoccupazione
e lo sguardo volger tristo.

Ma l’indecisione affama
cosicchè fermamente chiesi
ciò che è semplice, semplicemente presi
benchè la scelta risultasse grama.

(Titolo: Cameriere afono)

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Nel chiacchierino crocchio perder mi sento,
avrei voluto ci fossi tu meco
e se l’attenzione altrove io reco
immerso rimango nel vociar mai spento.

Non ci sei e di non pensar tento
al tempo che inutilmente spreco
assalito dal lamento greco
dell’uom fatale per cui mi pento

d’aver interrogato quando ero solo,
ultimo d’una schiera che paren cento
per sua serenitade con pazienza m’immolo.

(In fila dal dottore)

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Si espande e cade poco a poco
sprigionata da inconsueto calore
stillicidio inumano nel mio stupore
or che guardo in più nascosto loco.

Un nero artificioso copre i ricordi,
piccoli preziosi e penosi pensieri
di riscrivere oggi quel che feci ieri
cancellati perfino gli antichi bordi.

M’hai tradito, mia compagna,
di tante parole per poco perse
compagna ora della mia langa.

(Titolo: Penna scoppiata)

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Quest’antro un poco angusto
alle spalle del sole di mattina
privato di luce dalle case intorno
pare così ancor più vetusto.

I suoni lontani odo così vicini,
l’altrui viver m’è così noto
così è il mio per loro in toto.
Intrattenuto ogni dì dai lor felini.

Mio caro, troppo caro rifugio
aperto da un sol pertugio
ti lascio perchè lungi. E nel mio avvenire
dimentiar voglio la polvere e quell’umano frinire.

(Titolo: Stanza in subaffitto)

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Che fai, lassù, dimmi che fai.
Smargiassa fissi noi poveri uomini
se mortal poi nome ti nomini
so io che di lui tutto già sai.

Perdonaci, o donna dal pelo rosso tinta,
se di tua perfezione non prendiamo esempio
se di questa éra noi siamo scempio
dai ricordi di miglior giuventù vinta.

Quando poi misteriosa nell’antro ti celi
non gridar, che di tuo grido potrei morire,
parlami invece se mi vuoi istruire
tu che tutto a tutti tanto riveli.

(Titolo: Vecchia pettegola)

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Il forte vento ammutolisce il cinguettìo
la pioggia goccia, cic-ciac, fra le tamerici
chi ci salva dall’implacabile oblio?
tu ti quieti, mi guardi, mi rispondi “ma che dici?”.

Non senti l’acqua che forte cade,
vorresti lasciare il verde che scroscia
non raccoglier, noi, la suggerita angoscia
di questo amor che con la pioggia evade.

Ma dici tu, dura e senza cure,
mentre la mia tristezza è al culmine
correndo via per paura di un fulmine
“se tu vuoi cianciar, da solo ciarla pure”.

(Titolo: Acquazzone a Tor Lupara)

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Ora davvero è dura
per l’atto compiuto assorto
pel fidarmi, banale torto,
lasciandomi cadere senza cura.

Rapito dalla diurna stanchezza
attardato già sulla via
che risolve a casa mia
vinto ormai da leggerezza.

Il confortevole o la pigrizia
mi fecero un poco vacillare
ed ora che la rabbia m’assale
il biasimo s’arresta su cotal impudicizia.

(Titolo: Chewingum sul sedile dell’autobus)

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Un tremito possente
mi scuote da dentro
dipana dal centro
e tormenta la mente.

Dileguarsi senza indugiare,
ché il probabile periglio
mi sospinga a un nascondiglio
ove il mio dolor vuotare.

E nella fuga a perdifiato
il mio pensier tardo è naufragato.

(Titolo: Latte scaduto)