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Nel nubicondo azzurro alteggiava un pennuto
che parea saltasse di bianco in bianco
ed etereo capriolasse nell’inverno ormai stanco
che il mirarlo rendea ogni uomo muto.

Ridanciano un poco, e fulgido e diletto
sovrastava sicuro la grigia massa
che il brusio ignorava nella terra bassa
e remoto era assiso ed orgoglioso il petto.

Ma la bellezza nascone la più vile intenzione
allorchè tornai con lo sguardo al cammino
rapido in picchiata lo rividi vicino
spezzando con un segno la fragile illusione.

(Titolo: Un piccione mi ha sporcato la camicia)

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La tua voce che sovrasta il cicaleccio della folla
da un lontano passato tu vieni;
non ti resiste, non ti è pari quest’esitante zolla
che a bada, sottomessa e in pugno tieni

Eccoti eretta sul tuo trono
lasciato vuoto dal momento giunto
allora che squillò l’atteso suono
stuccati gli altri dal tuo furor compunto

Non ti duol tanta mestizia?
Non te ne calma l’argento capo?
Non toccherà a me pure tal letizia?

(Titolo: Vecchietta sull’autobus)

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Questa era l’ultima davvero
persa, dissolta come tutte le altre
cambiar l’avversa sorte ormai dispero.

Mi guardo intorno,
il vuoto, il niente
la città è un forno.
quell’uomo mente.

Con te avrebbe funzionato
aveva detto ed ho creduto
ma tutto è andato sprecato.
Dissolto, tutto è andato perduto.

Ne avevo proprio bisogno, sai?

(Titolo: Moneta nel distributore guasto)

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Rimane l’asperrimo odore.
Allorchè m’ero assopito,
sognando rapito di un boschivo mito
disteso, m’abbandonai passando l’ore.

Quando al momento, di levarmi intentai
m’accorsi che le forze non eran meco.
Stetti per volger in orizzonte sbieco
quando della madre betulla un braccio afferrai.

Ora che del trambusto il ricordo resta
e il sogno è oramai svanito
traccia del passato indelebile s’arresta
sicchè sognar mi costringe in più artefatto sito.

(Titolo: Resina sulle mani)

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Voi unici, pur se molteplici e identici.
Voi conosceste il sole che vi bagnava,
accarezzati dal vento che placido vi cullava
spezzati e segnati dalla lama che vi fece statici.
Presi dal calore che vi rese fragili
avvolti dal rosso di terre umili,
sotto uno stelo verde che vi completava.
Noi, nella tarda ora così complici:
nell’atto in cui vi afferro laconici
scivolate via da me, diabolici.
Ed il vostro rossore diviene il mio.

(Titolo: Pasta al pomodoro sui jeans)

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Mi fissi imperterrita mentre tua voce
permea la mia attenzione, colpita
da una discrepanza che credea sfuggita
a te che ripeti tua richiesta feroce.

Proferisci poi piano sottovoce
incurante e senza colpo ferire
risposta al mio ingenuo disquisire
sul tuo inganno che mi parve atroce.

Impavida, tu che di Cerere fai mercimonio
con l’aria angelica la tenzone vuoi finire
come Lucifero ti mostri sguaiato demonio.

(Titolo: Fornaia imbrogliona)

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Il tuo interloquire trasmette tracotanza
da un’indefinita conoscenza enunciavi
propositi e prescrizioni a cui poi ci obbligavi
e ci rendevi succubi della tua baldanza.

Ma la tua imago s’era incrinata
non lo dicemmo, lo confesso,
come di una vendetta il riflesso
e scotto di una faciloneria ripagata.

Così tu sorridevi e noi pure
di celestial missione investita
arroccata in supposte alture
ma dal mortal destino tradita.

(Titolo: Prezzemolo tra i denti del capo)

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E subitaneo silenzio si fece.
Volsi così lo sguardo la cielo
coperto, ahimè, dal laterizio velo
nella notte nera pece.

Mi riebbi dall’isolamento
pel dolor sollecito
conseguente, chiaro e implicito
presagi di un tormento

che colora la dimenticanza
di un nero manifesto
per aver lasciato – me mesto! –
il buio in questa stanza.

(Titolo: Dito chiuso nel cassetto)

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Pien di luce era la notte scura
e passeggiavo a cor leggero
con l’animo resosi un poco altero
dal trionfo della beltà sulla paura.

Riavutomi poi da cotal stupore
ero ben lontano dalla cara meta
sicchè con l’ausilio della vil moneta
presi il comun mezzo con malcelato timore.

Ma in un attimo preso, dal sonno rapito,
m’accorgetti abbassando di sfuggita lo sguardo
che quel sogno creduto brillante e maliardo
era stato da un uomo distrutto e ferito.

Sicchè tornar a casa io ora vorrei
e più non so come.

(Furto della borsa nel bus notturno)

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Ardea il campo dorato e lucente
infera immagine dall’azzurro mitigata.
Nel giorno del Signore si fece obbligata
l’escursione lontana dall’aere ardente.

Giunti che fossimo nel romano mare
il desiderio fu di trovar pace
al riparo immediato dell’inusitata brace
ove le membra fresche riparare.

Ma disgrazia ci colse del comun pensiero
tale che ultimi dell’umana condizione
fossimo noi espulsi da coltal tenzone
e il ritiro conluse il giorno nero.

(Titolo: Domenica a Ostia)

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Stregato dai tuoi melliflui occhi
mi pare il giorno esser più triste
allorchè al maleficio s’assiste
che la disperazione nel volto ti tocchi.

M’accosto, t’osservo, mi fermo e sorrido
tu ricambi bonaria, credetti, in buona fede
con una sofferenza che si vede in quelle prede
incapaci nel terrore di gettar un sol grido.

Con il cuore, confidando, un dono ti porgo
ma mi guardi malevola ed allora m’accorgo
che preda non sei, ma di me ti burli,
fuggevole m’allontano mentre schernendo mi urli.

(Titolo: La mendicante non accetta i panini)

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Le gocce cadute bagnano me pure,
il giorno correa incontro all’imbrunire
della pioggia il rumor si potea sentire
richiamavan i lampi le arcane paure.

L’aria di dicembre è cosa dura
ti scuote un poco, ti urla addosso
il desiderio del caldo che avei rimosso
col delusivo piacer che alla mente procura.

Inerme affrontavo, dolorante e indifeso,
l’abbattersi della tempesta che m’avea colto
impreparato e nell’incertezza preso
guardando il destino nel suo amaro volto.

(Titolo: Finestrino dell’autobus rotto)

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Lasciatemi gridar che il tempo fugge
e noi più lenti di lui restiamo
nel porgli misura di sfidarlo crediamo
ma egli solerte l’illusion distrugge.

La nebbia fitta si fece più rada,
spalancai le fessure di questa mia tana,
custode ormai della speranza vana
del nutrimento per cui l’invito decada.

L’oro rubicondo che nero si fece
ardea rodendo per siffatta brace
che nel pensier mio ancor non trova pace.

(Titolo: Lasagne bruciate)

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Nasce sotto i peggiori auspici
il giorno lungo di un’afosa estate
passata nelle stesse stanze odiate
dell’impieghi che furon assai infelici.

Il mio corpo, sai, non ha padroni
la mia volontade non gli pone impedimenti
per quanto poi d’oppormi tenti
solo vuol che a lui m’abbandoni.

Ma la realtà s’aggiusta ancor più forte
sicchè il mio corpo che a lei si piega
mi porta presagi di nefasta sorte
e la mia alma l’uom dell’acqua prega.

(Titolo: Scarico del bagno rotto)

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Tu che sei la Pizia di questo tempio,
priora sei di questo convento
ove si rifugia il cor contento
dal mondo sommessamente empio.

Qual che sia tua notizia di buon grado
l’accetto, ché null’altro potrei fare
senza tuo atto d’ira cagionare
sicchè dal mio pensar stesso mi dissuado.

Perché ora dunque con odio mi miri?
Allorchè m’addentro in più oscuri luoghi
una vetusta rabbia su me sfoghi
e il capo d’artificioso oro da me giri.

Ma null’altra strada mi restava.

(Titolo: La portinaia puliva le scale)

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Le tue parole serene e soavi
dolci, eleganti e raffinate
le sceglievi di buon gusto adornate
di letizia la tua favella melodiavi.

Ma era pioggia e cadea forte
sicchè restar non era saggio
pensar di cambiarti era miraggio:
l’allontanarci era l’unica sorte.

Così me ne andai per salvarmi
e per salvarti dalla vergogna
di romper il sogno di colui che sogna
e notar tua natura ingiusta e io senz’armi.

(Titolo: Mentre mi parlavi sputacchiavi)

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Vorrei lasciarti cadere nell’oblio,
avrei preferito non giunger a conoscenza
ma la realtà s’impone con prepotenza
e l’ingiuria prende quest’odor stantìo.

Porti via un quarto di questo mese
con te, frutto di indfessa fatica
rinnovi ora una questione antica
con la rabbia che già da tempo mi prese.

Siamo andati noi troppo veloci
più di quanto il tempo permettesse
e quel che conceder non si potesse
lo vedo segnato su te, con parole atroci.

(Titolo: Multa)

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Chiesi le begonie, ma begonie non avevi.
Proponesti rose, eppur non mi convincevi,
un po’ per il prezzo e un po’ per la fattura:
le rose già andate mi parean una iattura.

Presi margherite, titubando un poco,
altro non conoscevo in tal ameno loco.
Mi guardavi, mi capivi, riflettevi anche tu:
forse un fiore giallo, magari un fiore blu.

Ad un tratto, repentino, “calle?” dicesti,
caro romano, “meglio fresche, non diresti?”.
Incartasti le margherite e più non rispondesti.

(Titolo: Le calle sono fiori)

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Nei lignei scrittori assiso non udivi,
par che non ti giungesse la mia voce
implorante per tal responso atroce
che una volta emesso intirizzivi.

Non ti impensierisce che al mio focolare
rinunciar io devo fino a ignota data
da carte, pareri e indifferenza negata
costretto dal mio futuro a rinegoziare.

Adduci a ciò l’inutil questione
del denaro non fisso ricevuto
che del mio quotidian, com’hai veduto
è già assidua tribolazione.

(Titolo: Mutuo respinto)

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L’aere inumano s’è fatto
nell’anfratto d’artificiosa fattura
adibito a recar a maggior altura
nell’ambiente dal crocchio rarefatto.

Di mortal natura era l’origine
del misfatto da malizia cagionato,
di un perfettibile nutrirsi il risultato
che nel ricordo rinnova la vertigine.

Il disgusto non sortì alcun effetto,
l’odoroso aere in alcun modo si dissolse,
anzi portò diletto al fattore maledetto.
Mentre l’intera mattina mi sconvolse.

(Titolo: Peto in ascensore)

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Grido forte
“manca spazio!”
quasi è morte
questo strazio.

Spinto e sospinto
a necessità obbligato
pressato ad un lato
da rassegnazione vinto.

Or che l’aere scarseggia
il mio corpo è il mio confine
mentre la folla rumoreggia
attendo di questa attesa la fine.

(Titolo: Autobus nell’ora di punta)

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La tua voce m’era lontana
chiedevi, così pensavo,
ma non capivo, e m’arrestavo,
ed ogni scelta restava vana.

M’irritai, m’hai visto
ma non era l’intenzione
di recar preoccupazione
e lo sguardo volger tristo.

Ma l’indecisione affama
cosicchè fermamente chiesi
ciò che è semplice, semplicemente presi
benchè la scelta risultasse grama.

(Titolo: Cameriere afono)

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Nel chiacchierino crocchio perder mi sento,
avrei voluto ci fossi tu meco
e se l’attenzione altrove io reco
immerso rimango nel vociar mai spento.

Non ci sei e di non pensar tento
al tempo che inutilmente spreco
assalito dal lamento greco
dell’uom fatale per cui mi pento

d’aver interrogato quando ero solo,
ultimo d’una schiera che paren cento
per sua serenitade con pazienza m’immolo.

(In fila dal dottore)

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Si espande e cade poco a poco
sprigionata da inconsueto calore
stillicidio inumano nel mio stupore
or che guardo in più nascosto loco.

Un nero artificioso copre i ricordi,
piccoli preziosi e penosi pensieri
di riscrivere oggi quel che feci ieri
cancellati perfino gli antichi bordi.

M’hai tradito, mia compagna,
di tante parole per poco perse
compagna ora della mia langa.

(Titolo: Penna scoppiata)

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Quest’antro un poco angusto
alle spalle del sole di mattina
privato di luce dalle case intorno
pare così ancor più vetusto.

I suoni lontani odo così vicini,
l’altrui viver m’è così noto
così è il mio per loro in toto.
Intrattenuto ogni dì dai lor felini.

Mio caro, troppo caro rifugio
aperto da un sol pertugio
ti lascio perchè lungi. E nel mio avvenire
dimentiar voglio la polvere e quell’umano frinire.

(Titolo: Stanza in subaffitto)

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Che fai, lassù, dimmi che fai.
Smargiassa fissi noi poveri uomini
se mortal poi nome ti nomini
so io che di lui tutto già sai.

Perdonaci, o donna dal pelo rosso tinta,
se di tua perfezione non prendiamo esempio
se di questa éra noi siamo scempio
dai ricordi di miglior giuventù vinta.

Quando poi misteriosa nell’antro ti celi
non gridar, che di tuo grido potrei morire,
parlami invece se mi vuoi istruire
tu che tutto a tutti tanto riveli.

(Titolo: Vecchia pettegola)

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Il forte vento ammutolisce il cinguettìo
la pioggia goccia, cic-ciac, fra le tamerici
chi ci salva dall’implacabile oblio?
tu ti quieti, mi guardi, mi rispondi “ma che dici?”.

Non senti l’acqua che forte cade,
vorresti lasciare il verde che scroscia
non raccoglier, noi, la suggerita angoscia
di questo amor che con la pioggia evade.

Ma dici tu, dura e senza cure,
mentre la mia tristezza è al culmine
correndo via per paura di un fulmine
“se tu vuoi cianciar, da solo ciarla pure”.

(Titolo: Acquazzone a Tor Lupara)

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Ora davvero è dura
per l’atto compiuto assorto
pel fidarmi, banale torto,
lasciandomi cadere senza cura.

Rapito dalla diurna stanchezza
attardato già sulla via
che risolve a casa mia
vinto ormai da leggerezza.

Il confortevole o la pigrizia
mi fecero un poco vacillare
ed ora che la rabbia m’assale
il biasimo s’arresta su cotal impudicizia.

(Titolo: Chewingum sul sedile dell’autobus)

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Un tremito possente
mi scuote da dentro
dipana dal centro
e tormenta la mente.

Dileguarsi senza indugiare,
ché il probabile periglio
mi sospinga a un nascondiglio
ove il mio dolor vuotare.

E nella fuga a perdifiato
il mio pensier tardo è naufragato.

(Titolo: Latte scaduto)