La menzogna originaria

Evanzio, “La menzogna originaria”, Cosimo Ferracciuoli Editore, Salerno, 1979, pp. 326

Frutto di meditazioni giovanili, questo scritto affronta la tematica della parola. Dopo una dissertazione sull’importanza della parola in un mondo sempre più comunicativo, Evanzio afferma che la parola per essere veramente se stessa deve prescindere dalla realtà. Sembrerebbero parole in sè silenzio, nulla e lo zero, parole cioè che descrivono ciò che è impossibile da percepire nella realtà. Ma la parola è soprattutto discorso, la parola è comunicazione e deve essere utile. Ecco che quindi queste parole isolate diventano inutili, non hanno senso. E la parola che perde senso non è più reale.
Non si può, per lo stesso motivo, neanche cadere nell’astrattismo, dal momento che la parola ha bisogno di un codice comune e condiviso e, soprattutto di consenso.
Dove trovare, si chiete l’autore, la parola in se stessa? Evanzio risponde che è nella bugia, nella menzogna e nell’inganno, nella persuasione fine a se stessa. Ma l’inganno deve essere senza scopo, perché la parola ne verrebbe ridotta.
Ecco che allora i veri custodi della parola diventano i bugiardi patologici “sicchè il verbo e il tempo che anzi tutto stavano, trovavano loro ragion d’essere nella follia“, che è poi questa, secondo l’autore, la vera interpretazione dell’aforisma di Nicòlas Gòmez Dàvila “La parola non fu concessa agli uomini per ingannare ma per ingannarsi”.

Attendismo: l’attesa salverà il mondo

Evanzio, “L’Attendismo: l’attesa salverà il mondo”, Duopo Editore, Milano-Roma, 1984, pp. 715

L’attendismo è uno dei saggi più rivoluzionari di Evanzio. In questo libercolo l’autore espone una tesi originale che per taluni aspetti valica la filosofia per fondare le basi di un nuovo credo.
Alla base di questo nuovo credo c’è l’attesa. Attesa intesa, però, in modo particolare, cioè come tensione, così come nell’etimologia originaria, senza fine e senza scopo. L’attesa non è mai attesa di qualcosa, perché se così fosse si perderebbe di vista l’attendere, sarebbe nullo. Diverso è quindi parlare di attendere e di aspettare o aspettarsi qualcosa.
Il libro prosegue riportando un decalogo, ovvero alcuni precetti che conducono all’attesa pura. Dopo averne esposto i principi e chiarito gli stessi, Evanzio ci espone una sua teoria sull’origine del mondo, una cosmologia.
Il passaggio rivoluzionario nella cosmologia dell’autore sta in questo: la realtà che vediamo si sarebbe creata in un’attesa divina, in una sospensione dell’essere dovuto al riflettersi del Dio stesso.
A differenza delle cosmologie giunte fin’ora non c’è il nulla da cui nasce l’essere per volontà divina, o il caos da cui nascerebbe l’ordine, come per i Greci. Evanzio parla di un essere in movimento dalla cui sospensione attendistica scaturisce la realtà che noi vediamo tutti i giorni. Se questo ci sembra incredibile, argomenta l’autore, basta uscire dal proprio orizzonte soggettivo, spingersi alla dimensione universo per renderci conto di come tutto viva non sospeso nel tempo, ma in una tensione attendistica: quiete e trepidazione allo stesso tempo.
Come sarà, dunque, il mondo alla fine di quest’attesa? Per Evanzio la domanda è mal riposta. Infatti il semplice porla ci porta al di là dell’attendere, ci porta verso il fine, vanifica la realtà, la rende, cioè, vana, nulla. E come possiamo, si chiede, noi che diverremmo nulla domandarci ciò che dovrebbe essere?
Molto suggestivo è, infine, il rapporto tra questa disposizione d’animo e gli aspetti psicologici propri dell’uomo.
Arricchito con dei confronti tra le varie filosofie che sono propedeutiche all’attendismo, tra cui lo stoicismo e il cristianesimo, il testo è uno dei parti più originale della filosofia italiana contemporanea in un mondo che non è più capace di attendere.

In seguito sono riportati alcuni stralci.

Decalogo:

– L’attesa è la tua signora assoluta
– Non avrai altre attese all’infuori della tua
– Non desiderare l’attesa d’altri
– Non fuggire la tua attesa
– Attendi e ti sarà dato: nel tutto, sospendendo tutto, ritroviamo tutto
– Rispetta l’attesa d’altri
– Ama la tua attesa come te stesso, onorala e rispettala
– L’attendere sia autentico, non falsare la tua attesa con la finzione
– Attendi senza desiderare la fine o lo scopo
– Mai l’uomo è maggiormente padrone di sè e della propria esistenza come quando attende

[…] E’ ineludibile allora la distinzione tra attendere e aspettare. Attendere è tendere, è tensione, è slancio. Per essere attesa pura, però, non può focalizzarsi sul punto di arrivo, perché l’attesa perderebbe sostanza. L’attendere, dunque, dovrà essere tensione fine a se stessa, un’attesa senza scopo, senza fine. In questo si differenzia, per siffatti motivi, dall’aspettare qualcosa e, a maggior ragione, dall’aspettarsi qualcosa. […]

[…] Se l’aspettare accresce il desiderio, l’attendere non lo cancella ma lo sospende. In questa sospensione, che è puro attendere, l’uomo vede l’inizio, il percorso e la fine. In un tutto universale che ci appare allora chiaro e in cui l’uomo stesso, l’io, ci viene mostrato senza filtri emozionali. […]

[…] Credere che la pazienza serva all’attesa è un capovolgimento mistificatorio. E’ bensì vero il contrario: è l’attesa che genera pazienza. Affermare il contrario è sottomettere la volontà al puro arbitrio del caso, credere che ci siano individui più o meno dotati, più o meno fortunati. Ma questa pazienza è la bugia di chi freme. La pazienza non è una qualità ma è un atteggiamento. E’ la disposizione d’animo che si deve opporre al patire, come rivela la sua etimologia, cioè al dolore, al soffrire, alle controversie. La pazienza così intesa è la disposizione di chi attende in maniera pura, scevro da ogni fremito sussultorio, è frutto dell’attendere. […]

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Nel nubicondo azzurro alteggiava un pennuto
che parea saltasse di bianco in bianco
ed etereo capriolasse nell’inverno ormai stanco
che il mirarlo rendea ogni uomo muto.

Ridanciano un poco, e fulgido e diletto
sovrastava sicuro la grigia massa
che il brusio ignorava nella terra bassa
e remoto era assiso ed orgoglioso il petto.

Ma la bellezza nascone la più vile intenzione
allorchè tornai con lo sguardo al cammino
rapido in picchiata lo rividi vicino
spezzando con un segno la fragile illusione.

(Titolo: Un piccione mi ha sporcato la camicia)

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La tua voce che sovrasta il cicaleccio della folla
da un lontano passato tu vieni;
non ti resiste, non ti è pari quest’esitante zolla
che a bada, sottomessa e in pugno tieni

Eccoti eretta sul tuo trono
lasciato vuoto dal momento giunto
allora che squillò l’atteso suono
stuccati gli altri dal tuo furor compunto

Non ti duol tanta mestizia?
Non te ne calma l’argento capo?
Non toccherà a me pure tal letizia?

(Titolo: Vecchietta sull’autobus)

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Questa era l’ultima davvero
persa, dissolta come tutte le altre
cambiar l’avversa sorte ormai dispero.

Mi guardo intorno,
il vuoto, il niente
la città è un forno.
quell’uomo mente.

Con te avrebbe funzionato
aveva detto ed ho creduto
ma tutto è andato sprecato.
Dissolto, tutto è andato perduto.

Ne avevo proprio bisogno, sai?

(Titolo: Moneta nel distributore guasto)

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Rimane l’asperrimo odore.
Allorchè m’ero assopito,
sognando rapito di un boschivo mito
disteso, m’abbandonai passando l’ore.

Quando al momento, di levarmi intentai
m’accorsi che le forze non eran meco.
Stetti per volger in orizzonte sbieco
quando della madre betulla un braccio afferrai.

Ora che del trambusto il ricordo resta
e il sogno è oramai svanito
traccia del passato indelebile s’arresta
sicchè sognar mi costringe in più artefatto sito.

(Titolo: Resina sulle mani)

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Voi unici, pur se molteplici e identici.
Voi conosceste il sole che vi bagnava,
accarezzati dal vento che placido vi cullava
spezzati e segnati dalla lama che vi fece statici.
Presi dal calore che vi rese fragili
avvolti dal rosso di terre umili,
sotto uno stelo verde che vi completava.
Noi, nella tarda ora così complici:
nell’atto in cui vi afferro laconici
scivolate via da me, diabolici.
Ed il vostro rossore diviene il mio.

(Titolo: Pasta al pomodoro sui jeans)

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Mi fissi imperterrita mentre tua voce
permea la mia attenzione, colpita
da una discrepanza che credea sfuggita
a te che ripeti tua richiesta feroce.

Proferisci poi piano sottovoce
incurante e senza colpo ferire
risposta al mio ingenuo disquisire
sul tuo inganno che mi parve atroce.

Impavida, tu che di Cerere fai mercimonio
con l’aria angelica la tenzone vuoi finire
come Lucifero ti mostri sguaiato demonio.

(Titolo: Fornaia imbrogliona)

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Il tuo interloquire trasmette tracotanza
da un’indefinita conoscenza enunciavi
propositi e prescrizioni a cui poi ci obbligavi
e ci rendevi succubi della tua baldanza.

Ma la tua imago s’era incrinata
non lo dicemmo, lo confesso,
come di una vendetta il riflesso
e scotto di una faciloneria ripagata.

Così tu sorridevi e noi pure
di celestial missione investita
arroccata in supposte alture
ma dal mortal destino tradita.

(Titolo: Prezzemolo tra i denti del capo)

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E subitaneo silenzio si fece.
Volsi così lo sguardo la cielo
coperto, ahimè, dal laterizio velo
nella notte nera pece.

Mi riebbi dall’isolamento
pel dolor sollecito
conseguente, chiaro e implicito
presagi di un tormento

che colora la dimenticanza
di un nero manifesto
per aver lasciato – me mesto! –
il buio in questa stanza.

(Titolo: Dito chiuso nel cassetto)

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Pien di luce era la notte scura
e passeggiavo a cor leggero
con l’animo resosi un poco altero
dal trionfo della beltà sulla paura.

Riavutomi poi da cotal stupore
ero ben lontano dalla cara meta
sicchè con l’ausilio della vil moneta
presi il comun mezzo con malcelato timore.

Ma in un attimo preso, dal sonno rapito,
m’accorgetti abbassando di sfuggita lo sguardo
che quel sogno creduto brillante e maliardo
era stato da un uomo distrutto e ferito.

Sicchè tornar a casa io ora vorrei
e più non so come.

(Furto della borsa nel bus notturno)

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Ardea il campo dorato e lucente
infera immagine dall’azzurro mitigata.
Nel giorno del Signore si fece obbligata
l’escursione lontana dall’aere ardente.

Giunti che fossimo nel romano mare
il desiderio fu di trovar pace
al riparo immediato dell’inusitata brace
ove le membra fresche riparare.

Ma disgrazia ci colse del comun pensiero
tale che ultimi dell’umana condizione
fossimo noi espulsi da coltal tenzone
e il ritiro conluse il giorno nero.

(Titolo: Domenica a Ostia)

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Stregato dai tuoi melliflui occhi
mi pare il giorno esser più triste
allorchè al maleficio s’assiste
che la disperazione nel volto ti tocchi.

M’accosto, t’osservo, mi fermo e sorrido
tu ricambi bonaria, credetti, in buona fede
con una sofferenza che si vede in quelle prede
incapaci nel terrore di gettar un sol grido.

Con il cuore, confidando, un dono ti porgo
ma mi guardi malevola ed allora m’accorgo
che preda non sei, ma di me ti burli,
fuggevole m’allontano mentre schernendo mi urli.

(Titolo: La mendicante non accetta i panini)

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Le gocce cadute bagnano me pure,
il giorno correa incontro all’imbrunire
della pioggia il rumor si potea sentire
richiamavan i lampi le arcane paure.

L’aria di dicembre è cosa dura
ti scuote un poco, ti urla addosso
il desiderio del caldo che avei rimosso
col delusivo piacer che alla mente procura.

Inerme affrontavo, dolorante e indifeso,
l’abbattersi della tempesta che m’avea colto
impreparato e nell’incertezza preso
guardando il destino nel suo amaro volto.

(Titolo: Finestrino dell’autobus rotto)